
Lavorare nella scuola significa formare, ispirare, sostenere. Ma significa anche, troppo spesso, lavorare gratuitamente o quasi, in una realtà che sembra aver dimenticato il valore del tempo e della professionalità.
L’ultimo esempio personale che voglio condividere riguarda la mia partecipazione come segretario del concorso docenti D.D. 205 del 2023. Un incarico ufficiale, con responsabilità precise: assistere alle prove orali, verbalizzare, gestire la documentazione e contribuire all’organizzazione dell’intero processo per ben 224 candidati.
Per ogni candidato, il tempo minimo previsto per la prova orale era 22 minuti e 30 secondi, anche se in pratica nessuno è rimasto entro questi limiti: alcune prove sono durate fino a 45 minuti, senza contare la gestione prima e dopo ogni prova. Ma supponiamo pure, per puro esercizio di calcolo, che ogni esame sia durato esattamente il tempo minimo:
224 candidati × 22,5 minuti = 5.040 minuti, ovvero 84 ore.
A queste vanno aggiunte le ore di lavoro preparatorio, organizzazione dei verbali, assistenza alla commissione, gestione dei documenti e logistica: oltre 100 ore di lavoro effettivo, senza alcun dubbio.
Il compenso promesso per tutto questo? 438 euro lordi.
E no, non è ancora arrivato. A distanza di quasi un anno, non ho ancora ricevuto un centesimo.
Facendo due conti: 438 euro diviso 100 ore, 4,38 euro all’ora. Ma ripeto: se considerassimo le ore reali, probabilmente saremmo intorno ai 3 euro all’ora o meno.
E io mi chiedo: possiamo ancora chiamarlo lavoro? O dobbiamo iniziare a usare la parola giusta: sfruttamento?
Purtroppo questo non è un caso isolato, è solo la punta di un iceberg che chi lavora nel mondo della scuola conosce fin troppo bene. Accompagnare gli studenti nelle uscite didattiche, ad esempio, implica ore e ore di responsabilità continue, senza alcun riconoscimento economico. Spesso queste attività iniziano all’alba e si concludono a sera inoltrata, con la supervisione di decine di ragazzi e tutte le implicazioni legali e morali del caso.
Oppure pensiamo ai corsi di formazione che svolgiamo fuori orario, nei ritagli di tempo e che vengono considerati quasi un “dovere morale”, senza che nessuno si prenda la briga di retribuirli come dovrebbero.
Il risultato è un sistema che vive grazie al volontariato degli insegnanti e del personale scolastico. Un sistema che regge solo perché molti di noi scelgono, per passione, per senso del dovere o per coscienza civica, di continuare a dare anche quando sarebbe più logico dire “basta”.
Ma la verità è che la passione non può essere una giustificazione al disinteresse economico e organizzativo delle istituzioni. È ora che il lavoro nella scuola venga riconosciuto per quello che è: lavoro vero, con tutte le sue complessità, il suo valore, la sua dignità.
Perché educare non è beneficenza. È il pilastro di una società civile. E finché continueremo a trattarlo come un hobby malpagato, sarà difficile costruire davvero un futuro migliore.
Orlando Morrone