
Lavoce.info ha pubblicato in questi giorni un interessante saggio di Maria De Paola, docente di politica economica, e Luca Sommario, esperto di politiche a supporto delle famiglie, sulle dinamiche demografiche del nostro Paese.
Dinamiche che, come documentiamo in un altro nostro articolo, hanno ricadute inevitabili sul sistema scolastico.
L’Italia – spiegano i due studiosi – si trova attualmente in una fase di profonda transizione demografica, caratterizzata da una persistente denatalità e un progressivo invecchiamento della popolazione.
Per comprendere meglio i modelli riproduttivi delle famiglie italiane, i due ricercatori hanno fatto ricorso a un registro altamente affidabile: i dati derivanti dalle domande di assegno unico universale (AUU) dai quali emerge che è ormai in atto la tendenza a non andare troppo in là con il numero di figli.
Sebbene l’Italia non sia ancora definibile un paese “da figlio unico”, i dati mostrano chiaramente che la propensione a fermarsi presto, dopo il primo o al massimo il secondo figlio, è la scelta più diffusa.
Le analisi condotte mostrano che circa metà delle madri ha un solo figlio, quattro su dieci ne hanno due, mentre appena il 10 per cento ne ha tre o più.
Se si considera il gruppo di donne che ha avuto il primo figlio nel periodo 2012-2013 (e che ha più verosimilmente concluso il proprio percorso riproduttivo), il quadro cambia leggermente ma conferma la tendenza: in questo gruppo prevalgono le madri con due figli (49 per cento), seguite da quelle con un solo figlio (38 per cento), mentre solo il 13 per cento ha tre o più figli.
Fattori culturali ed economici influenzano in maniera sostanziale le scelte riproduttive. L’analisi comparativa tra madri italiane e straniere mette in luce un divario molto rilevante, coerente con i rispettivi tassi di fecondità (1,14 per le italiane contro 1,82 per le straniere nel 2023).
Mentre tra le madri italiane domina il modello dei due figli (circa il 50 per cento), tra le madri straniere la propensione ad avere famiglie più numerose è molto più marcata: quasi il 20 per cento ha tre figli e oltre il 5 per cento arriva ad averne quattro o più.
Questo differenziale ha agito come un elemento di resilienza per il sistema demografico italiano, fornendo un argine parziale alla denatalità e mitigando una contrazione delle nascite che altrimenti sarebbe stata ancora più pronunciata, attenuando squilibri nel ricambio generazionale e nella struttura per età.
Un aspetto interessante riguarda la relazione tra status socioeconomico e scelte riproduttive. In Italia, a differenza di quanto suggerito dalla letteratura demografica per molti altri paesi europei, non sembra ancora emergere il superamento della tradizionale relazione inversa tra reddito e numero di figli.
Le madri con più figli tendono a distinguersi per condizioni economiche peggiori. L’indicatore della situazione reddituale (Isr) medio registrato dalle madri scende progressivamente: è di 47mila euro per chi ha un solo figlio, 39mila euro per chi ne ha tre, e circa 31mila euro per chi ne ha quattro.
Tuttavia, la relazione non è perfettamente lineare. Si osserva una forte presenza di figli unici sia nelle famiglie economicamente svantaggiate che in quelle più benestanti, mentre le famiglie con tre o più figli si concentrano soprattutto nelle fasce di reddito medio-basse.
L’analisi territoriale mostra differenziazioni geografiche che riflettono la persistenza di modelli culturali, opportunità economiche e dotazioni infrastrutturali eterogenei.
- Le madri con figlio unico sono concentrate prevalentemente nel Nord-Ovest (Piemonte, Lombardia, Liguria) e in Sardegna.
- Le famiglie con due o più figli mostrano maggiore frequenza nel Mezzogiorno e in alcune aree del Nord-Est.
- Le famiglie più numerose (tre o più figli) si concentrano in specifiche regioni meridionali (Sicilia, Calabria, Puglia) e in alcune aree alpine.
La geografia della numerosità è sostenuta da una combinazione di fattori culturali ed economici. Al Nord, la presenza di madri con più di tre figli è collegata alla maggiore incidenza di donne straniere, a un sistema di welfare più strutturato e a un contesto economico più solido. Al Sud, invece, continua a prevalere il modello della famiglia estesa e tradizionale.
Ma c’è un dato molto rilevante: “L’età della madre al primo figlio rappresenta una variabile cruciale nella determinazione della dimensione familiare. I dati mostrano una relazione inversa robusta. A scopo esplicativo si consideri che le madri italiane con cinque o più figli hanno avuto il primo in media a 24,4 anni, contro i 30,5 anni per quelle con due figli e 34,5 anni delle donne con un solo figlio. Il pattern è ancora più accentuato per le madri straniere: 23,6 anni per chi ha cinque figli versus 26,7 anni per chi ne ha due e 31,6 anni per chi ne ha uno”.
“Questa evidenza – affermano ancora – sottolinea l’importanza dell’orologio biologico e dei vincoli temporali nella pianificazione familiare, elementi che assumono particolare rilevanza in un contesto caratterizzato da prolungamento dei percorsi formativi e ritardo nell’ingresso nel mercato del lavoro. Ritardare la decisione di avere un figlio incide sulla dimensione famigliare e, naturalmente, riduce anche la probabilità di poterlo avere”.
I due studiosi concludono osservando che il fenomeno demografico è complesso e richiede un approccio integrato e sistemico. Le politiche di sostegno alla famiglia dovrebbero procedere in parallelo con interventi strutturali sul mercato del lavoro, volti a contrastare la posticipazione delle scelte riproduttive.
Tra le azioni necessarie figurano l’aumento dell’occupazione femminile (il tasso italiano è oltre 12 punti inferiore alla media UE), il potenziamento dei servizi alla prima infanzia e un miglior bilanciamento tra vita privata e lavoro, anche attraverso un uso più equo dei congedi tra padri e madri.
“Non esistono soluzioni semplici – affermano infine De Paola e Sommario – e definire strategie realmente efficaci rappresenta una sfida aperta e decisiva per il futuro del paese”.
Insomma, per contrastare il cosiddetto “inverno demografico” che stiamo attraversando ci vogliono idee, progetti, investimenti e, forse, anche una inversione di tendenza dei modelli culturali e sociali.



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