Home I lettori ci scrivono Facciamoci una domanda: cosa ci rende davvero felici?

Facciamoci una domanda: cosa ci rende davvero felici?

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C’è una domanda che ha il potere di coinvolgerci di persona, di esporci di fronte agli altri. Di costringerci a manifestare il nostro animo. Essa è: “Cosa ti rende felice? Sei contento della vita che conduci?”. Perché è troppo comodo disquisire in modo impersonale sulla felicità. Sappiamo tutti che quest’ultimo interrogativo, in qualche modo, ci passa sulla testa e lascia il tempo che trova.

Perché, per qualcuno, la felicità coincide con il benessere economico. Per altri è il successo personale e professionale. Oppure il mondo degli affetti, le storie sentimentali, le soddisfazioni istintuali… Per altri ancora, è la salute, la serenità, una vita ordinaria senza esperienze dolorose…

Per quanto riguarda le culture, poi, sono molti i modi di concepire la felicità. Nel mondo greco-romano, essa era, fondamentalmente, la capacità di trovare un equilibrio fra gli opposti della rinuncia e dell’eccesso, secondo la regola della “giusta misura” o metriotes. Era anche qualcosa a metà fra l’impegno personale e la sorte favorevole (da cui il termine eudaimonìa: démone benigno, destino propizio).

Nel mondo cristiano, la felicità non è solo equilibrio ma letizia, beatitudine, di fronte alla certezza che Dio ci ama e ci ha programmati per la vita eterna. Essa scaturisce dall’annuncio dell’angelo ai pastori di Betlemme: “Vi annuncio una grande gioia – nuntio vobis gaudium magnum – che sarà di tutto il popolo: Oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore” (Luca, 2, 10–11).

Nietzsche la definisce, con scetticismo: “la grande felicità cristiana”. In quanto, prima di Gesù, gli antichi conoscevano o l’orgia pulsionale o l’equilibrio dei saggi ma non la letizia dello spirito.

Comunque, il capovolgimento dello schema classico, basato sulla misura e sull’equilibrio, si ha con la Rivoluzione americana e con quella francese, riproposte dai movimenti studenteschi degli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento. In esse viene espressa, per la prima volta, la Grande Promessa per l’uomo moderno: il diritto alla felicità. Così, nella Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America (1776) si legge che tutti gli uomini hanno diritto alla vita, alla libertà e alla “ricerca della felicità” (the pursuit of happiness). Saint-Just scriverà: “La felicità è un’idea nuova in Europa”.

Eppure, ciò che è accaduto dopo ha messo in crisi l’ottimismo illuministico sulla “facilità della felicità”. Le guerre e le crudeltà del Novecento, frutto di ideologie devastanti, la consapevolezza che non esiste un’evoluzione umana necessaria e senza limiti ma che il progresso può subire brusche cadute ed essere esso stesso una minaccia se utilizzato male, la constatazione che la scienza non può rispondere alle domande sul senso globale della vita… ci hanno ricondotto a una visione pessimistica dell’uomo. Molti, abbandonando il concetto di felicità, sono tornati a considerare come meta appetibile l’equilibrio e la serenità, cari al mondo classico.

Più che di felicità, oggi, psicologi, sociologi, filosofi ed esperti del cervello parlano di benessere psicofisico. Giustamente, Alessandro D’Avenia scrive: “La felicità è un’arte, non una scienza”. La stessa distinzione fra piacere e felicità appare, anch’essa, indefinita. Sembra assodato, però, che il piacere ha, per lo più, i caratteri dell’immediatezza, della parzialità, della fisicità. Mentre la felicità si basa su una certa durata e sul coinvolgimento globale della persona.

Una cosa è certa: a generare ed accrescere il benessere concorre in modo decisivo la consapevolezza che ne abbiamo. Tale capacità è tipicamente umana. È sconosciuta all’animale, al quale manca l’autocoscienza, il riflettore puntato su di sé. Chi riesce, nelle sue esperienze, ad unire l’anima al corpo, a vivere in modo spirituale ciò che è fisico, ed in modo corporale, emotivo, ciò che è spirituale, ha il potere di accrescere il suo benessere.

Certo, si può essere più felici se abbiamo il coraggio di riflettere sulla nostra vita, lavorando su noi stessi, imparando a fare scelte più audaci, o ancora modificando le nostre convinzioni e le rappresentazioni che ci facciamo di noi stessi e del mondo. I neuroscienziati, per indicare la capacità del cervello di trasformarsi, usano una parola: “plasticità”.

Luciano Verdone