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I dolori del giovane precario

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La professione dell’insegnante ha per me, in qualità di lavoratore precario, tanti problemi specifici. Fuori dalla Scuola o dal Pubblico Impiego è molto spesso di casa il vero sfruttamento del lavoratore; ogni lamentela esposta qui, dunque, assume un tono relativo. Per converso, tuttavia, è proprio per la natura “più umana” del trattamento ricevuto nel Pubblico Impiego e, soprattutto, per la valenza che hanno alcuni suoi comparti come quello della Scuola, che ci si aspetterebbe un balzo di qualità professionale e personale. Aspettativa molto spesso delusa, anche se non mancano episodi con tratti eroici.

Venendo al cuore della questione e facendo leva sulla mia esperienza personale, posso asserire che le frustrazioni più grandi che ho ricevuto da questo lavoro sono essenzialmente di due tipi:

1) l’impossibilità di accedere ad un ruolo a tempo indeterminato;

2) le resistenze dei colleghi al nuovo o al diverso – avvertite spesso anche da colleghi di ruolo soggetti a mobilità forzata in fase assunzionale, soprattutto se meridionali trasferiti al nord.

Il primo punto credo sia abbastanza evidente di per sé stesso; certamente ogni forma precariato è un attentato alla stabilita e alla salute psicofisica di chi la subisce, non fa eccezione la Scuola. Entrando nel merito del punto, tuttavia, un elemento forte è rappresentato dalla dislocazione in posti sempre diversi, spesso lontani decine di chilometri da casa (cosa che affligge ancor più paradossalmente anche molti docenti di ruolo), con la conseguente necessità di dover cambiare abitudini, orari, fare nuove amicizie – qualora ve ne sia modo – e dover entrare ogni volta in sistemi collaudati; gli stessi che spesso sono incancreniti da logiche di nonnismo e da vere e proprie “cupole” di potere – diretto o indiretto – che resistono persino all’avvicendarsi dei DS, rappresentando molte volte un vero e proprio contropotere. Si tratta però di un aspetto veramente poco importante – specialmente quando si può far forza sul proprio lavoro, e soprattutto quando esso rappresenta la propria passione, come nel caso di chi scrive.

Il secondo elemento evidenziato, che a una prima analisi può essere sicuramente presente in ogni ambito di lavoro, diventa però più assurdo e pesante in un luogo che dovrebbe essere il tempio della tolleranza e della collaborazione reciproca, ovvero la Scuola. Le delusioni più grandi, da questo punto di vista, si sono mostrate per via del fatto che la stragrande maggioranza dei colleghi non vuole investire in amicizia sul supplente, anche se annuale, perché lo percepisce come una persona con una precisa scadenza contrattuale, e dunque a termine, se non addirittura un docente – e spesso un persona – di “serie b”, meno preparata o semplicemente da considerare poco. Questi aspetti traspaiono con forza nella difficoltà che il supplente ha di essere ricambiato nei saluti, nelle proposte di uscite extra didattiche – a meno che non sia coinvolta la classe; oppure, le proposte di confronto e collaborazione didattico-metodologica vengono spesso travisate e scambiate per richieste di aiuto, proprio per questo essere a priori percepiti come dilettanti allo sbaraglio.

La persona, quindi, ne risulta sminuita in autorevolezza dinnanzi agli stessi colleghi e spesso con gli studenti. Vorrei sottolineare che questo salto linguistico e logico deriva proprio da una incomprensione da parte dei colleghi, poiché – mediamente – un docente precario è più giovane e quindi, sempre mediamente, più predisposto al lavoro in gruppo, al confronto coi compagni di lavoro e alla condivisione di contenuti, strategie ed obiettivi. Storicamente, e sempre generalizzando (con tutti i limiti di questa operazione), il docente di ruolo è più spesso un giocatore in solitaria che, chiusa la porta in aula, rende conto solo al DS di quel che fa; non è giudizio, bensì una constatazione.

Insomma, i colleghi non vogliono avere nulla a che fare con te, se non per gli aspetti strettamente inerenti la classe. Spesso, anche senza volerlo, gli parli e ti piantano in asso perché passa un collega alla quale devono dire una cosa (di lavoro o privata… ma telefonarsi o vedersi dopo no?!) e ti lasciano lì senza nemmeno scusarsi. Analizzate i comportamenti che si vedono nei corridoi o nell’aula docenti e ditemi se non ho ragione. Oppure stai parlando con un collega ne arriva uno/a e ti taglia fuori dalla discussione – frapponendosi proprio tra te e l’interlocutrice, dandoti le spalle. Oppure ancora, mentre ti trovi tra colleghi, magari prima dei Collegi Docenti – quando sarebbe una rara occasione di conoscere e socializzare – iniziano a parlare di cose successe anni prima, di altre classi o di vicende personali e tu ti ritrovi automaticamente escluso; l’esempio più vicino è quando si è ad una festa, tra persone che conosci poco o nulla, e le stesse iniziano a parlare di argomenti “loro”, dimostrando ben che vada un alto tasso di maleducazione.

Capisco che i tempi siano spesso stretti, ma abituarsi a questa frammentazione dei rapporti non fa altro che deteriorarli o non farli nascere affatto. Tralascio, nondimeno, i commenti contro i DS e le tribune politiche, di ogni colore, che troppo spesso ho visto svolgere anche a lezione, in barba a qualsiasi linea deontologica e in pieno fraintendimento della libertà della docenza.

Mi è capitato altresì di essere piantato in asso, conclusa un’uscita didattica, da colleghi che a voce assumono l’impegno di riaccompagnarti a scuola con l’auto (così come si è giunti sul luogo) per poter a propria volta riprendere il proprio mezzo e che poi nei fatti si dileguano velocemente, lasciandoti sul posto come un cretino, senza porsi il problema se puoi e sai tornare indietro – perché magari sei in un posto che conosci poco – oppure se lo pongono e non gli interessa. È gravissimo vero? Questa gente ha in mano i figli delle persone, ma in quel caso sono ineccepibili perché c’è il penale, con i colleghi, invece, è solo questione di umanità. Vi chiederete: il telefono? E chi li ha avuti mai i contatti di queste persone? Pensate che sia così facile da supplenti avere i contatti di tutti i colleghi, anche di quelli coi quali si accompagnano le classi? No, non lo è, perché ci si sente dire che il collega non vuole “dare il suo numero a tutti”, nonostante il fatto che questi docenti siano spesso molto prodighi nel dare i loro contatti persino agli studenti. Come ci si deve sentire se si è trattati meno di uno studente – che può usare il numero privato per scherzi o altro? Poi ti fermi a pensare alle ragioni di questo trattamento e arriva l’illuminazione: forse sono colleghi della tua stessa materia, e tu sei supplente, magari su sostegno, e ancor di più ti rifuggono. Pensi che quando entri in sala insegnanti ti fanno la radiografia (posso chiedere tranquillamente numi sulla mia salute) e tutto torna, improvvisamente, chiaro: magari ti temono, forse sanno che insegnano la tua materia essendo laureati/e in tutt’altro e avendo fatto due esamini integrativi, probabilmente nelle tante università telematiche 3×2 o non avendoli sostenuti affatto; forse ti vogliono segare le gambe perché sei un futuro competitor nelle graduatorie interne, perché studi, lavori sodo e ti tieni aggiornato e loro invece si crogiolano nella “intoccabilità” data soprattutto dai punteggi di servizio, per te inarrivabili.

Tornando all’episodio di poche righe fa direte che beh… stavano amabilmente chiacchierando e ti hanno perso di vista, non sapendo come rintracciarti. Può essere, risponderei, ma il giorno dopo, come minimo, io mi sarei scusato col capo cosparso di cenere con chi è stato mollato nel vuoto e poi addurrei le mie motivazioni. Nulla di tutto questo! A voi le conclusioni!

Vi risparmio altri mille episodi di una piccola antologia della vergogna, comprese le offese personali ricevute durante gli esami di maturità perché una collega non vede sue foto nel percorso finale di uno studente handicappato, come se un docente vero esercitasse pressione su una persona con ritardo mentale o fisico per imporgli le proprie volontà; oppure la derisione dei colleghi perché non si conosce bene la normativa sul Sostegno agli esami – invero fumosa – quando loro non sono nemmeno capaci di redigere PEI all’altezza della situazione o un documento del 15 maggio senza invocare per sé doti demiurgiche e, però, ufficialmente si battono a tuo favore, solo perché gli avresti fatto comodo contro i commissari esterni, che temono, chissà perché?

Tutto però si supera grazie al riscontro e al riconoscimento che ottieni dai ragazzi, qualora però ci sia l’opportunità di averlo o di aver un contatto con loro – il che nella Scuola di oggi non è poi così scontato e non solo per “questioni generazionali”. Si pensi al persistere del ruolo del docente di potenziamento, nonostante sia ormai cancellato dalla legge, mentre invece i colleghi neoimmessi, o comunque immessi da poco, continuano a dover fare i tappabuchi per larga parte del loro monte ore; dunque rapporto coi ragazzi zero, e questo vale anche per il docente di Sostegno, argomento che affronterò successivamente.

Altro problema che affligge il mestiere dell’educatore in generale, non solo quindi l’insegnante, è quello che vede una “questione di genere rovesciata”. Mi spiego bene: il settore è ancora largamente a maggioranza femminile, oltre che di età media avanzata. Ne consegue che gli esempi anche virtuosi di insegnanti maschi possano risultare veramente poca cosa e, per converso, il docente uomo – essendo maschio – è automaticamente e comunque percepito come un potenziale “maiale”. Non c’è distinzione tra vera e propria pedofilia o pettegolezzo, spesso gratuito, tra il docente uomo e studentesse grandi di età, o persino colleghe giovani. Sei uomo, e giovane, quindi ci provi! Se sei fidanzato o sposato e ti vedono instaurare un rapporto con una collega, o con più colleghe, giovani – beh, allora “tu ci stai provando” in ogni caso. Via con battutine e le insinuazioni, anche con la complicità e gli ammiccamenti degli studenti – e tu ti guardi con la collega ridendo le prime volte, spazientendoti se il gioco persiste. Non si pongono il dubbio che tra “simili ci si intende”, visto che siamo tutti nella stessa situazione, chi più chi meno. Non ci si pone nemmeno il problema che un uomo, pur essendo tale, può avere gusti sessuali diversi dallo stereotipo – ebbene sì, nella Scuola si vive di stereotipi – e questo ovviamente vale, mutatis mutandis per la donna giovane.

Poi io vedo cinquantenni annoiate che, con la scusa che sono donne – quindi sempre e comunque “mamme” – allungano le mani, magari fingendo di giocherellare con gli alunni, oppure si intrufolano con morbosità nelle vite private degli studenti o si impicciano delle loro cose, spesso anche quando gli stessi sono ormai fuori dalla Scuola. Prima che partano le bordate del femminismo d’accatto, leggete con attenzione, per favore, e riflettete sulle mie parole; questo luogo comune che la donna è sempre e comunque madre – anche qualora non riesca ad esserlo o non voglia – è, a mio avviso, l’assist più diretto e robusto al maschilismo più bieco. Ridurre la donna a “solo” madre significa oscurarne le legittime rivendicazioni personali e professionali. La donna nel 2019 ha e deve avere la sua sessualità, i suoi desideri, e può, allo stesso modo, rivolgere attenzioni indicibili agli stessi studenti maschi (o femmine), soprattutto quelli più grandicelli, già “fisicati”, ecc. Avete mai sentito qualcuno che denunci questi atteggiamenti? Avete mai sentito puntualizzare che la docente è o dovrebbe essere una professionista, un’educatrice e non una madre o un’amica? No! Salvo poi quando accadono fatti di cronaca che portano alla ribalta questi episodi al di pedofilia o comunque al limite. Certo, sono più numerosi quelli in cui è il docente uomo a molestare, ma mi chiedo se ciò non sia dovuto anche a una maggiore ritrosia delle vittime maschili a denunciare la molestatrice – a causa di una mentalità “machista” che vuole l’uomo sempre attivo e cacciatore – rispetto ai casi delle ragazze vittime del professore “maiale”, per l’appunto. Massima riprovazione in entrambi i casi, ma credo che sia necessario un supplemento di riflessione bello ampio.

Sulla strada dei pregiudizi, in questo come in altri campi, il personale della Scuola ne ha di lavoro da fare. Purtroppo è capitato anche a me, nonostante io sia estremamente attento anche nel limitare i contatti fisici, seppur legittimi come le strette di mano, al minimo sindacale – proprio per non ingenerare chiacchiere del genere.

I formalismi e le rigidità che dovrebbero contraddistinguere il lessico e la gestualità di un insegnante in classe, possono però a mio avviso legittimamente cadere una volta che gli studenti hanno chiuso il ciclo di studi che li lega a te – specialmente quando, come è spesso il mio caso, si tratta dell’ultimo della loro carriera scolastica prima dell’università o del lavoro. Se ci si incontra per strada, quando tutto è finito, per me possono anche chiamarmi per nome e darmi del tu – se lo preferiscono – perché non c’è più alcun obbligo etico-morale e formale. Ebbene questo atteggiamento è stato, anche se solo una volta, interpretato maliziosamente come un tentativo di adescamento e non come uno degli esiti del naturale passaggio degli stessi studenti nel mondo della vita adulta. Non si è colto, o si è fatto finta di non farlo, che se anche il rapporto con gli studenti – maschi e femmine – diviene via via più intenso verso la conclusione dell’anno, si tratta in realtà di una conseguenza, magari, di una maggiore apertura degli stessi verso di te, di una maggiore loro fiducia e non di un tuo oscuro disegno di circonvenzione di poveri “incapaci”.

Sorprende, tuttavia, sapere che gli stessi tuoi accusatori li invitano a casa, magari per cena, sia durante la permanenza a scuola che dopo. C’è qualcosa che non va! Così come è abbastanza strano sapere che questi colleghi si fidano molto di poco più che adolescenti, o magari di bambini, che di un adulto e collega, non sapendo magari che questi stessi studenti, a settembre, dimenticheranno tutto e tutti e che a volte hanno parlato male – spesso con ragione – anche di coloro che li tengono in così alta considerazione.

Non sfuggirà al lettore che tutta questa faccenda è espressione di una povertà d’animo, di una miopia professionale e della scarsa frequentazione della vita reale fuori dalla prigione non certo dorata, ma nemmeno ferrea, delle aule. Fa male sentirsi giudicato nelle intenzioni e nella fibra etico-morale da chi queste concezioni le ha da tempo abbandonate dietro ampollose petizioni di principio, poco seguite da fatti concreti.

Un problema più serio e doloroso spesso sorge tuttavia quando si svolge il ruolo di docente di sostegno, specialmente in classi e gruppi già collaudati e rodati come un quinto anno, la terza media, ecc. È chiaro che vi siano eccezioni nobili a questi meccanismi, io sto solo raccontando la mia esperienza e quella di altre persone che conosco, anche di ruolo. A tutti i problemi descritti poc’anzi se ne sommano altri di due specie: nella prima, sono i colleghi stessi, spesso digiuni della normativa e/o di ogni minimo rudimento pedagogico e didattico, a ritenere il docente di Sostegno poco più che un badante dell’alunno handicappato e non un loro pari comunque assegnato alla classe; nel secondo caso sono gli studenti che, sebbene il docente trascorra molte ore nella classe (anche 18 su 18 – e comunque mediamente più di un docente curricolare), considerano il professore di Sostegno un organo estraneo e non afferente al corpo docenti; spesso i due fattori si compenetrano a vicenda.

Io ravviso due cause principali per questa distanza almeno iniziale degli studenti verso il professore di sostegno: è un docente che non dà voti, anche se partecipa al voto di condotta e alla valutazione finale del Consiglio di classe – ma questo i ragazzi non lo sanno e i colleghi spesso lo ignorano, anche se coordinatori di classe; il secondo elemento è che il docente di Sostegno “non spiega”, non può mostrare il suo valore disciplinare – e se ne guarda bene, per non generare invidie, scavalcamenti e sovrapposizioni con gli altri colleghi – ma questo non attiva la curiosità degli studenti, non li fa “sporgere” umanamente verso di te, nonostante tu, in qualità di docente della classe sia già sporto “anche” verso di loro.

Eppure, il docente di sostegno assiste a dinamiche comportamentali, psicologiche (individuali e di gruppo) alle quali nemmeno un docente curricolare, persino se conosce la classe da diversi anni, può assistere – proprio perché la presenza del sostegno è spalmata su molte ore, trasversali rispetto ai diversi insegnamenti e all’orario delle lezioni; un docente curricolare, infatti, ha sempre quelle ore lì durante una giornata, es. la quinta ora, mentre il professore di sostegno vede i ragazzi in un intervallo di tempo che va dalla prima all’ultima ora. E poi le persone cambiano da un anno all’altro, figuriamoci persone nell’età dello sviluppo. Molto spesso poi, a scuola come a casa, gli studenti mostrano mille facce ai diversi interlocutori – non si spiegherebbe, altrimenti, la sorpresa dei genitori, anche quelli non sprovveduti e seri, quando si vedono descrivere dei figli che non sembrano i loro alle udienze coi docenti.

Invito con fermezza e forza tutti gli insegnanti di ruolo a leggere queste mie parole con attenzione e non percepirle come un attacco, bensì come un suggerimento per migliorare, una denuncia di debolezze che solo un occhio esterno e meno coinvolto può cogliere. Dimostrate a voi stessi e poi ai vostri studenti che gli effetti alone – che colpiscono spesso molti supplenti – non vi appartengono e cercate di accogliere i nuovi colleghi, che magari saranno lì solo per pochi giorni con la più umana delle azioni: sorridere, presentarsi e magari offrire un caffè… vedrete che l’ambiente di lavoro, nella sua interezza, ne gioverà. Certamente i comportamenti succitati mi hanno ferito e deluso, ma sono altresì sicuro che con un po’ di pazienza le cose miglioreranno sicuramente.

Robin Book