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Ripercorrendo l’epoca di Francesco

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È stato definito una delle guide più autorevoli a livello planetario. La sua credibilità nasceva, ovviamente, dall’autenticità, dalla rispondenza fra pensiero e comportamento. Certo, nel parlare, non usava la prudenza diplomatica dei suoi predecessori. Non mostrava di avere il loro amore per l’identità cristiana del continente europeo. Veniva da latitudini diverse. Era stato segnato dalla miseria dei sobborghi argentini. Per questo, possedeva una sensibilità, forse mai riscontrata nei pontefici romani, verso le frange marginali. Dicono che nei dodici anni di magistero non ha fatto un solo pronunciamento dottrinale. In realtà, preferiva parlare con la mimica facciale, con il sorriso aperto ed accogliente, con la tenerezza dello sguardo. Bastava osservarlo un attimo per comprendere che quell’uomo credeva veramente in ciò che c’è di buono nelle persone e nel mondo. Quanta gente ammette di essere stata attratta da quel volto, da quello sguardo, da quella mano tesa, in un gesto che non conosce confini.

Non si comprende Papa Francesco se non si ammette che egli era, nella sostanza, un’icona evangelica autentica, rivoluzionaria proprio perché evangelica. I suoi gesti potevano sembrare audaci, sconvolgenti, persino irritanti. Quando invitava gli imam a piantare in Vaticano l’ulivo della pace, nel tempo in cui i miliziani islamisti tagliano le gole… Quando, ogni volta che entrava in un penitenziario, affermava: “Io sono peggio di voi”, mettendo in imbarazzo gli operatori carcerari e facendo esplodere in coriandoli il senso dello Stato e della giustizia su cui poggia l’Occidente romanizzato… Quando, ai Rom della Romania dichiarava: “Vi chiedo perdono in nome della Chiesa, al Signore e a voi”, facendo finta di non sapere che la città del papa, Roma, è sfigurata da un arcipelago di campi Rom, e che i Rom sono proverbialmente dediti all’accattonaggio e all’estorsione… Eppure, in tutti questi casi, Francesco compiva gesti dirompenti, paradossali. Ma, per lui, normali, evangelici.

Qualcuno osservava: ma non potrebbe usare un linguaggio generico, parlare della dignità d’ogni uomo, anziché dire ai Rom: “Perdonateci quando vi emarginiamo”. In tal modo, egli scavalcava persino i linguaggi estremi della politica, ponendosi, certo involontariamente, come leader del pensiero rivoluzionario. Confessiamolo. Molti cattolici non erano preparati a questo linguaggio. E tante volte, essi, i cattolici, non si percepivano spalleggiati da lui, nelle battaglie ideali. Per usare un’allegoria, essi si sono sentiti talvolta come i difensori di una cittadella i quali, mentre infuria la battaglia, scorgono, dall’alto delle torri, il loro capitano che, uscito dalla cinta muraria, va ad abbracciare quelli che dovrebbero essere, per loro, i ‘nemici’. Questo perché Francesco non possedeva il senso dell’assedio. Per lui non esisteva la Chiesa di fronte al mondo ma la Chiesa dentro il mondo. Egli guardava al mondo attuale come ad una realtà alla quale far sentire calore, solidarietà, simpatia.

Cosa che, per Bergoglio, era più importante di ogni battaglia, anche la più sacrosanta. È per questo che ricorse alla celebre allegoria dell’“ospedale da campo” dove c’è posto per tutti, dove si curano prima i casi estremi e solo dopo gli altri. Di fronte ad un mondo ottenebrato dal vuoto esistenziale, la Chiesa, per lui, non poteva perdersi nelle postille. E lui che veniva dalle favelas, dove la vita umana non ha valore e la morale sessuale non esiste, era portato a dar peso alla sostanza.

Viene subito alla mente quel piccolo uomo del 1200, che aveva il suo stesso nome e che attraversò i deserti arabici per andare a portare la pace al Saladino, cioè a colui che, a quei tempi, era l’incarnazione massima dell’icona degli infedeli e dei nemici della Cristianità.

Tuttavia, non è che Francesco le cose non le dicesse. Si pensi a quando affermò: “L’aborto è come assoldare un sicario per uccidere un innocente al posto nostro”. O quando bollò la globalità, affermando: “Questa è la globalizzazione dell’uniformità egemonica, è proprio il pensiero unico”. Eppure, egli preferiva restare fedele al suo carisma, quello della fiducia verso l’uomo. Francesco conosceva la complessità del mondo in cui viviamo ed aveva deciso di abitare in questa complessità, fatta di agnosticismo, disorientamento, vuoto valoriale, come in una delle tante possibili manifestazioni dell’umano e del divino.

Francesco lo sapeva. Questa non è l’epoca degli eroi dello spirito ma quella dell’uomo comune, perso nella contraddizione del quotidiano. Egli voleva dare un senso a questa complessità, a questa contraddizione. Farne una sorta di categoria teologica. Francesco desiderava manifestare, all’uomo d’oggi, la tenerezza di Dio. Di quel Dio che è padre della bambina nata, senza sua colpa, in un campo Rom. Come del bambino arabo che si ritrova con un mitra in mano. Come dell’uomo metropolitano che agisce senza pensare, che esiste senza essere.

Luciano Verdone