Home I lettori ci scrivono Sulla questione palestinese non si può stare a guardare

Sulla questione palestinese non si può stare a guardare

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Come educatori e cittadini consapevoli, abbiamo scelto di redigere, sottoscrivere e diffondere questa lettera aperta sulla questione palestinese per due ragioni fondamentali, che riteniamo non solo eticamente imprescindibili, ma pienamente coerenti con la nostra funzione educativa e civile.

Perché è doveroso far sentire la propria voce di dissenso: il silenzio è complicità

La storia ci insegna che l’indifferenza è la più grande alleata dell’ingiustizia. Troppe volte, di fronte a tragedie umanitarie e violazioni sistematiche dei diritti umani, le società democratiche hanno scelto il silenzio o l’equidistanza, salvo poi, con il senno di poi, ammettere: «Io c’ero, ma non ho fatto niente.» Noi non vogliamo essere tra coloro che hanno taciuto.

Perché prendere posizione è parte integrante del nostro compito educativo

Insegnare non significa solo trasmettere nozioni. Significa formare coscienze critiche, capaci di orientarsi nel mondo e di distinguere tra ciò che è legale e ciò che è giusto, tra potere e diritto, tra propaganda e verità. Restare neutrali di fronte a una tragedia umanitaria di questa portata equivale a insegnare ai nostri studenti che la vita delle persone non ha lo stesso valore, che la forza può prevalere sul diritto, che si può convivere con l’ingiustizia senza porsi domande.

1. Una risposta sproporzionata non è degna di uno Stato civile

Nessuna persona intellettualmente onesta può giustificare gli attacchi compiuti da Hamas, che rappresentano atti gravi, da condannare con fermezza. Tuttavia, la risposta dello Stato di Israele – sistematica, prolungata, distruttiva – ha assunto i tratti di una punizione collettiva su larga scala, travolgendo indistintamente civili, donne, bambini e infrastrutture essenziali. Questa reazione, per la sua brutalità, si allontana dai canoni del diritto internazionale e dai principi che dovrebbero guidare una democrazia moderna. L’utilizzo della forza non può degenerare in vendetta. Lo Stato di Israele, che rivendica il suo carattere civile e democratico, dovrebbe sapersi distinguere, per misura e responsabilità, dai gruppi terroristici che dice di combattere. La sproporzione non è solo un fatto militare: è anche e soprattutto un fatto morale.

2. Una guerra che somiglia sempre più a una conquista territoriale

Da decenni assistiamo, sotto gli occhi spesso inerti della comunità internazionale, a una lenta e sistematica espansione dei territori israeliani a discapito di quelli palestinesi. Insediamenti illegali, annessioni de facto, muri e blocchi che rendono la vita impossibile nei territori occupati, suggeriscono che questa non sia una guerra di difesa, ma una guerra di espansione. La logica che sembra guidare tali azioni richiama sinistramente la teoria dello “spazio vitale”, un concetto tragico e inaccettabile nella storia europea del Novecento. Il diritto di Israele a esistere e a difendersi non può tradursi nel diritto a espandersi a spese di un altro popolo privato da generazioni della propria sovranità, dignità e libertà.

3. Criticare Israele non è antisemitismo

Troppo spesso ogni critica rivolta alla condotta del governo israeliano viene respinta come potenzialmente antisemita. Questa posizione, oltre a essere intellettualmente scorretta, è profondamente lesiva della libertà di espressione e del dibattito democratico. È possibile, ed è doveroso, distinguere tra l’antisemitismo – che va combattuto con ogni mezzo – e la critica legittima a uno Stato e alla sua politica estera. Il mondo ha diritto di parlarne senza essere accusato di odio razziale.

Questa lettera non è un attacco, ma un appello. Un appello alla giustizia, alla coerenza morale, alla fine dell’impunità. Abbiamo bisogno, prima di tutto, di umanità.

Vito Pavone
(con il sostegno di un gruppo di docenti dell’IIS Canudo-Marone-Galilei di Gioia del Colle – Ba)