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Tra le helping professions, il burnout colpisce soprattutto i docenti. Specialmente oggi. Perché?

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Nei corsi sulla sicurezza, cui i docenti devono sottoporsi, si dice che non tutto lo stress è negativo e che anzi, la specie si è evoluta grazie allo stress. Certamente negativo, però, è lo stress che ammala. Non tutte le professioni vi sono soggette. Esso colpisce in specie le helping professions, “professioni di aiuto”: quelle che alimentano la crescita altrui, o affrontano i problemi legati all’altrui benessere, curando gli altri sul piano fisico, psicologico, intellettuale, emotivo, spirituale. Son tali il mestiere di medico, infermiere, psicoterapeuta, consulente psicologico, assistente sociale, docente.

Insegnanti: il sovraffaticamento che brucia l’anima

Lo stress che colpisce queste professioni è spesso così continuativo e intenso, da far ammalare. La sindrome di burnout è per i docenti una sorta di olocausto della propria anima. Al suo culmine fa sentire a terra, privi d’energie e motivazioni, incapaci di reagire. O, peggio, fa scivolare nella patologia psichiatrica o oncologica: la categoria docente, infatti, si ammala di cancro e impazzisce più delle altre categorie della pubblica amministrazione.

Gli italiani se ne infischiano: e si fanno male da soli

Quand’anche la cosa sembrasse non riguardare la collettività italiana, in realtà dovrebbe impensierire i nostri concittadini: il malessere dei docenti limita l’efficacia del loro lavoro, vitale per il Paese intero. Un docente, che soffra a causa del proprio lavoro, può sviluppare fastidio e insofferenza verso gli alunni; può assentarsi spesso (non per fannullaggine, ma perché proprio non ce la fa più); può esser meno brillante nei risultati educativi.

Se il docente è insoddisfatto, anche la qualità del suo lavoro sarà insoddisfacente, e il suo malumore diverrà contagioso. Se un docente sviluppa comportamenti negativi verso il proprio lavoro e verso la vita, anche il suo stato di salute peggiorerà, danneggiando la continuità del servizio. Se la qualità della vita del docente si riduce, portandolo ad una visione negativa di se stesso, il suo impegno ne risentirà negativamente.

Le continue controriforme scolastiche di uno Stato che non vede i docenti

Il ministero dovrebbe preoccuparsi di questo, più che di far piover sulla Scuola le continue controriforme che l’hanno trasformata in una girandola di progetti e iniziative — anche tecnologiche — di dubbia “innovatività”. Ai docenti manca anzitutto il riconoscimento (non solo economico) del prezioso lavoro che svolgono: sempre più spesso si ha l’impressione che essi non contino, e che qualcuno lassù non veda l’ora di sostituirli con l’intelligenza artificiale.

I docenti non sentono più la Scuola come un ambiente di lavoro equo: effetto della gerarchizzazione aziendale introdotta nella Scuola con l’impiegatizzazione e la contrattualizzazione di natura privatistica (grazie al D.Lgs. 29/1993), con la cosiddetta “autonomia scolastica” e con la “buona scuola“ di renziana memoria (legge 107/2015).

Autonomia scolastica? o eteronomia autocratico-gerarchico-aziendal-verticistica?

Il dirigente/manager, che ha preso il posto del preside, è figura ben diversa dal preside elettivo esistente all’università, e che andrebbe introdotto anche nelle scuole. La sua figura contrasta con la libertà d’insegnamento garantita da Costituzione e Decreti Delegati. Egli ormai nomina anche i propri collaboratori, espropriando ulteriormente le prerogative del collegio dei docenti. Ciò ha spezzato la solidarietà esistente un tempo in quella ex comunità educante che ancora chiamiamo scuola, ma che somiglia sempre più a una ditta, in competizione con altre ditte dello stesso settore. Un’aria malsana non fa respirar bene, e ciò si percepisce molto chiaramente in fin troppi istituti scolastici.

Il perpetuo senso di colpa di una categoria resa inconsapevole del proprio valore

I docenti vivono tutto ciò con uno straniante senso di colpa. Temono di esser loro a non capire, a non impegnarsi abbastanza, a non adattarsi come dovrebbero. Mentre semmai è vero il contrario: dovrebbero riconoscere la follia che da 30 anni investe la Scuola, in un Paese immemore di se stesso, delle proprie radici culturali, della propria tradizione pedagogica, dell’importanza della Scuola come luogo di rielaborazione della cultura nel rapporto dialettico docente/discente, che non può svilupparsi se entrambi operano in un’atmosfera priva dell’ossigeno della comprensione sociale e della stima generalizzata verso l’istituzione scuola nel suo complesso.

Una burocratizzazione che è riuscita a togliere ai docenti qualsiasi iniziale entusiasmo

I docenti sperimentano così un forte senso d’impotenza. Non pensano più di riuscire come un tempo a influire sulla risoluzione dei problemi sociali. Si struggono sotto carichi di lavoro sempre più pesanti, tra richieste gravose perché di natura meramente burocratica, sottoposti al continuo obbligo di rendicontare su quanto fanno, di dimostrare che le carte sono a posto.

Tutto ciò risucchia energie, dando loro l’impressione di non riuscire mai a recuperarle. Si sentono inadeguati a sostenere richieste sempre più avulse dal desiderio che essi avevano di insegnare quando hanno iniziato a lavorare; richieste estranee alla voglia di trasmetter conoscenza e di farne percepire la bellezza.

Il lavoro imposto oggi ai docenti scatena emozioni negative, che contraddicon tutti i loro convincimenti; come sempre avviene a chiunque sia costretto a contraddire la propria coscienza. Alla faccia della libertà d’insegnamento: che è poi libertà di pensiero, azione e iniziativa, come ben sapeva Piero Calamandrei, il quale considerava la Scuola “organo costituzionale” della democrazia.

Tutto ciò sta avvenendo con crescente frequenza nella Scuola italiana. È forse un caso? O, piuttosto, vuolsi così colà dove si puote?